L’argomento è spinoso. Assume toni aspri quando riguarda la predazione illecita della selvaggina. Addirittura apocalittici, quando a un dentista americano gli viene affibbiato ingiustamente l’appellativo, stante il fatto che lui era in regola e per dimostrarlo si è dovuto muovere il capo del governo della nazione africana, territorio della mistificazione internazionale.
In Italia, il nostro grande paese, il reato ascritto viene additato ad esecrazione popolare, soprattutto per far dimenticare tutto il resto che quotidianamente si consuma con la turpe complicità di coloro che per ruolo e per definizione ne dovrebbero essere i rigorosi sorveglianti, organizzazioni ambientaliste a animaliste in testa.
Un po’ di dati non guasterebbero, ma per ora rimaniamo alle riflessioni. Su decine e decine di campagne antibracconaggio, che impegnano l’intero corpo della Forestale, le guardie provinciali, le guardie volontarie, soprattutto quelle della legione anticaccia, i risultati sono ben poca cosa se si raffrontano al fenomeno ben più ampio dell’aggressione illegale che colpisce l’ambiente e di conseguenza anche la fauna selvatica. A confronto dei quattro untorelli che di fronte all’opinione pubblica si prendono tutte le colpe, passano inosservati i massacri che si consumano tutti i giorni, impunemente, non solo nei confronti degli animali, ma anche e soprattutto nei confronti del genere umano.
Lo scandalo della terra dei fuochi, documentato nella sua enormità sociale e civile fin dagli anni ottanta, dà la misura di un’emergenza umanitaria (bambini a rischio cancro da 20 a 40 volte maggiore che a Tokio dopo Fukushima: fonte ISS, Istituto Superiore della Sanità) che ovviamente interessa anche le aree rurali, i prodotti agricoli, gli animali selvatici che inconsapevolmente vi sostano o vi transitano. Come lo chiamereste voi, questo massacro illegale che fa stragi silenziose di intere popolazioni selvatiche?
L’inquinamento dei suoli per sversamenti industriali, ovunque, soprattutto al nord, il radicale mutamento di certe pratiche di produzione di derrate alimentari, mais, riso, l’uso abbondante di prodotti chimici, lo scandaloso provvedimento comunitario (quella UE che ci perseguita per un fringuello o per una settimana di caccia in più) che ha raddoppiato i limiti per le emissioni delle auto (polveri sottili ormai incontrollate, specchio dell’inutilità del rigoroso Ministro Galletti), lo spettrale deserto lunare dell’ILVA e di tante altre realtà piccole e grandi e misconosciute in tutta Italia, cos’altro sono nelle loro conseguenze nei confronti (prima dell’uomo) e delle popolazioni animali, se non un enorme micidiale, impunito atto di bracconaggio?
Lo so, sono concetti difficili per certe anime candide, che passano il tempo nei salotti romani a disquisire sul sesso degli angeli, fra un pasticcino, una carezza al pet-toy (gattino o cagnolino che sia), tutto azzimato che fa la cacca nella sua vaschetta firmata, mangia crocchette vegane, è cliente del dentista, usa profumi francesi. Sono concetti difficili per chi crede che la natura si salva facendo la doccia in due, o lavandosi una volta alla settimana.
Spero che non lo siano, difficili, almeno per i nostri dirigenti venatori, e che invece – fra una diatriba e l’altra per contendersi i tesserati, fra un contenzioso e l’altro sui capanni, sulle date di apertura e di chiusura, su chi deve sovrintendere alla vendita e al consumo della carne di ungulati (tutte cose importantissime, non c’è dubbio, anzi bisogna insistere) – trovino il tempo di riflettere sul fatto che è importante, importantissimo, si, rendere sempre più corretta l’attività di prelievo della selvaggina, che si tenga sempre più conto che la biodiversità e gli equilibri interspecifici sono alla base di una oculata gestione del territorio, ma, soprattutto, non dimentichino che se vogliamo ricollocare la nostra amata passione nel contesto sociale che gli spetta, la prima cosa da fare è impegnarsi a denunciare, contestare, opporsi a tutti quei fenomeni che non solo fanno danno alla fauna selvatica, ma minano la nostra stessa vita, quella dei nostri figli e dei nostri nipoti. Questa è la bandiera da sventolare. Quella di un new deal ambientalista, dopo che – come ormai è assodato – abbiamo capito che i radicaleggianti movimenti ambientalisti italiani hanno fallito su tutti i fronti.